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Benessere economico e felicità - Davide Boraso

Più poveri e più felici? La correlazione tra benessere economico e felicità

Il benessere economico è da sempre considerato una delle basi della qualità della vita, ma la sua influenza si estende ben oltre il mero accumulo di beni e servizi.

La ricchezza di una nazione e dei suoi cittadini sembra promettere più opportunità e una vita migliore: ma è davvero così semplice?

La questione è più complessa di quello che si potrebbe pensare e riguarda diversi ambiti: non solo è importante capire quanto il benessere economico impatti sulla felicità, anche su dinamiche sociali come i tassi di natalità e situazioni personali e di interesse comune come i livelli di stress e ansia. Infine, è utile analizzare come ciò incida nelle varie parti del mondo, in relazione a contingenze e culture differenti.

Benessere economico e felicità: c’è relazione?

Il benessere economico è spesso visto come una diretta via per la felicità, un’equazione semplice e intuitiva: essere più ricchi sembrerebbe essere la via per essere felici.

Tuttavia, la realtà è molto più sfumata. Il paradosso di Easterlin, formulato dall’economista Richard Easterlin negli anni ‘70, ha posto le basi per interrogarsi su questa presunta correlazione diretta. Secondo lo studioso, in una società in cui vi sia un aumento del reddito medio per persona, la felicità media non cresce allo stesso modo. Questa osservazione invita a riflettere su come, al di là dei mezzi economici, altri fattori possano essere determinanti per il benessere psicologico.

In molti paesi ad alto reddito, nonostante le abbondanti risorse economiche, i cittadini non segnalano livelli di felicità superiori rispetto a quelli di paesi con risorse molto più limitate. Le ricerche indicherebbero che, una volta soddisfatti i bisogni di base, elementi come le relazioni personali, la sicurezza sociale, la qualità dell’ambiente e l’accesso a beni culturali e ricreativi diventano più significativi per la felicità individuale.

Ma non solo: per certi versi, il benessere economico potrebbe essere controproducente: l’impatto delle aspettative personali e della pressione sociale, infatti, modulerebbe la percezione della propria felicità. Pertanto, in società dove il successo materiale è fortemente valorizzato, il desiderio di essere sempre più ricchi al fine di essere sempre più felici potrebbe, in realtà, corrompere il senso di soddisfazione personale.

Ciò sembrerebbe trovare conferma nello studio proposto da Pew Research Center[1] secondo il quale, se è vero che mediamente i paesi più ricchi risultano più felici di quelli più poveri, è altrettanto vero che raggiunta una certa qualità della vita, in grado di soddisfare i bisogni primari, il benessere materiale non avrebbe un effetto più intenso sulla soddisfazione generale.

In altre parole, sebbene sia fondamentale avere la possibilità di avere garantiti i bisogni primari per essere soddisfatti, oltre una certa soglia di benessere la ricchezza non aumenterebbe ulteriormente la felicità.

Questo conduce a una riflessione più ampia sulla necessità di politiche pubbliche che non mirino solo alla crescita economica, ma che tengano conto di una gamma più ampia di indicatori di benessere. Ad esempio, promuovere un equilibrio tra vita lavorativa e personale, investire in servizi sociali e infrastrutture comunitarie e proteggere l’ambiente sono tutti fattori che possono contribuire significativamente alla felicità collettiva.

Tassi di natalità e benessere economico: perché non crescono di pari passo

Un altro aspetto interessante nel rapporto tra benessere economico e felicità è rappresentato dall’analisi dei tassi di natalità nei paesi del mondo. Di fatto, esiste una correlazione inversa tra benessere economico e tassi di natalità: nei paesi più ricchi, i tassi di fertilità tendono a essere significativamente più bassi rispetto a quelli dei paesi in via di sviluppo. Questa tendenza può essere provocata da una serie di fattori socio-economici e culturali che influiscono sulla decisione di avere dei figli da parte delle coppie.

In primo luogo, l’istruzione e la possibilità di carriera hanno un ruolo molto importante. Nei paesi con un alto livello di benessere economico, vi è generalmente un maggiore accesso all’istruzione, soprattutto per le donne. Ciò consente alle donne di avere una maggiore possibilità di scelta, portando spesso a posticipare la maternità. Questo fenomeno, che in alcuni casi può avere come conseguenza l’infertilità o la possibilità di avere un solo figlio, è dovuto in parte ai costi associati alla genitorialità. Non si tratta solo delle spese vere e proprie per il mantenimento dei figli, ma anche della potenziale perdita di reddito rimanendo a casa per un certo periodo.

Nelle aree geografiche economicamente più avanzate, il costo della vita può essere molto più elevato che in paesi meno ricchi. Le spese per l’istruzione, l’assistenza sanitaria e l’alloggio, insieme alle aspettative di un certo standard di vita, possono rendere la prospettiva di avere figli meno attraente.

Non va poi dimenticato il fatto che una maggiore disponibilità e l’uso più diffuso di metodi contraccettivi efficaci permettono alle coppie di pianificare più liberamente il numero e le tempistiche secondo le quali avere dei figli, sebbene talvolta possa diventare troppo tardi.

Questi fattori sono intensificati dalle aspettative culturali e dalle norme sociali che possono valorizzare obiettivi di vita alternativi rispetto alla genitorialità, come viaggiare, carriere di successo e realizzazione personale. Le politiche sociali, come il congedo parentale retribuito e il supporto all’infanzia, variano ampiamente e possono anche influenzare la decisione di avere figli, mostrando come le scelte di politica pubblica possano influire in modo determinante sulle tendenze demografiche.

Quindi, mentre il benessere economico offre molte opportunità, esso porta anche a considerazioni che possono limitare la natalità.

Ansia e benessere economico: perché sono in relazione

Anche il tema della diffusione di disturbi come l’ansia può essere affrontato analizzando il contesto geografico e socio-economico.

Uno studio pubblicato su Middle East Current Psychiatry[2] ha messo in luce come l’incidenza dei disturbi d’ansia sia più alta nei paesi ad alto reddito e ha trovato correlazioni significative con vari indicatori di sviluppo economico come il PIL pro capite e l’urbanizzazione.

I disturbi d’ansia, tra l’altro, hanno incrementato la loro prevalenza in modo significativo negli ultimi trent’anni, colpendo maggiormente la popolazione anziana e le donne, proprio in un periodo storico in cui il benessere economico è cresciuto.

Vivere in città grandi, dove spesso si pensa ci siano più attrattive e più possibilità di crescita sociale e lavorativa, in realtà, sembrerebbe portare a una maggiore difficoltà psicologica.

Un altro interessante aspetto della questione è rappresentato dalla differenza della prevalenza di ansia tra Occidente e Oriente. Sebbene gli studi sul benessere rilevino che negli Stati Uniti ci siano più persone che si dichiarano felici rispetto a quelle dell’Est asiatico, il disturbo d’ansia colpirebbe una tantum circa il 30% delle persone, contro il 5% registrato in Cina.

Da una parte questo paradosso ha fatto pensare a lungo che si trattasse di una mancanza di dati documentati in Cina: oggi, invece, i ricercatori tendono a pensare che siano le differenze culturali a fare la differenza.

Secondo gli studiosi[3] analizzando il rapporto con le emozioni degli occidentali e degli orientali, si possono notare tre differenze principali:

  • Coesistenza delle emozioni: mentre in Occidente si tende a percepire la felicità e la tristezza come emozioni alternative una all’altra, nelle culture orientali si accetta la coesistenza di sentimenti contrapposti, riducendo così la minaccia percepita delle esperienze negative.
  • Transitorietà delle emozioni: in contrasto con la visione occidentale di un sé emotivo stabile, nelle culture orientali le emozioni sono viste come temporanee e in continuo cambiamento, in modo tale da mitigare l’impatto delle esperienze negative.
  • Contesto delle emozioni: se gli occidentali hanno la percezione che le emozioni derivino da sé stessi, gli orientali le considerano come prodotte dalle circostanze. Ciò rende possibile modificare gli stati d’animo e cambiare il contesto sociale.

Pertanto, mentre gli occidentali tendono a sopprimere le emozioni e a dare un giudizio su di esse, suddividendole tra positive e negative e aumentando così il rischio di disturbi dell’umore, gli orientali mantengono un approccio più olistico e sociale anche nei momenti di tristezza.

Alla luce di tutto ciò, si potrebbe concludere che il vecchio adagio secondo il quale la ricchezza non fa la felicità sia ancora molto attuale: ciò che conterebbe realmente, anche secondo gli studi scientifici, sarebbero la qualità delle relazioni interpersonali, il senso di appartenenza alla comunità e la ricerca di un equilibrio tra il benessere materiale e quello emotivo, che sono le basi per un’esistenza soddisfacente e significativa.

 

[1] https://www.pewresearch.org/global/2007/07/24/happiness-is-increasing-in-many-countries-but-why/

[2] https://mecp.springeropen.com/articles/10.1186/s43045-023-00315-3

[3] DOI: 10.1177/1088868317736222